L’estetista, artista della bellezza

Disquisire di bellezza in un congresso dedicato alla pelle è quanto mai importante per dare la giusta connotazione a un termine usato spesso in modo generico e poco ponderato. E sicuramente l’estetista, sulla cui figurà si discuterà all’interno di una tavola rotonda durante i lavori di DERMOCOSM, è la figura professionale a cui per prima ci si rivolge per inseguire quei canoni di bellezza che si desiderano raggiungere.

Sara Patrone, che è estetista, antropolga e autrice del saggio “Il malinteso della bellezza” (Meltemi editore), in questa intervista esprime la sua idea di bellezza e chiarisce quale sia il ruolo dell’estetista anche in relazione alle altre figure professionali.Sara Patrone estetista

Perché la bellezza è un malinteso?

Anni di esperienza nel settore beauty, a contatto con richieste di bellezza più o meno esplicite, mi hanno insegnato che, nella nostra cultura, sembrano esserci pochi dubbi su cosa significhi essere di bell’aspetto e a quali canoni ci si debba rifare se si vuole entrare nella categoria delle persone avvenenti.

Sebbene le bellezze che riconosciamo tali, in questi anni, si stiano moltiplicando, è piuttosto probabile che per noi, occidentali nel 2023, una “bella donna” sia una persona giovane, snella, tonica e dai lineamenti facciali simmetrici. Mi rendo conto di come possa suonare curioso, quindi, parlare di bellezza come di un malinteso. Che malinteso dovrebbe mai esserci se ci troviamo d’accordo su tutta la linea?

Qui entra in gioco l’antropologia che insegna a diffidare delle evidenze, ad assumere una postura critica nei confronti di ciò che chiamiamo “naturale”, a problematizzare l’ovvio, a trovare lo spazio della domanda dove siamo soliti vedere risposte convincenti. E in questo senso la bellezza non fa eccezione.

La bellezza, come ogni altra costruzione storico-culturale, è una domanda che dobbiamo porci, pena il malinteso. Nel mio saggio ho esattamente cercato di fare questo: scomporre tale domanda in punti interrogativi più piccoli sui quali ho riflettuto assieme a persone che hanno a che fare con la bellezza per lavoro e per necessità: cosa significa essere belli e belle? Come mai la bellezza esteriore è considerata “roba da donne”? E perché le clienti che ero solita trattare nei beauty center spiegano la loro ricerca di bellezza come un esercizio individuale della propria libertà “di piacersi” trascurando, a parole, gli effetti assolutamente sociali della loro corporeità?

Cosa caratterizza il nostro concetto di bellezza rispetto a quello di altre culture?

Limitatamente agli studi che ho condotto sino ad ora, riporto uno degli aneddoti di Maurice Leenhardt, antropologo e missionario in Nuova Caledonia nei primi anni del Novecento, relativo ad una sua conversazione con un anziano filosofo canaco nella quale, dopo avergli chiesto se l’impatto con la cultura europea fosse riuscito nell’intento di introdurre la nozione di spirito, l’autoctono rispose, a sorpresa: “ciò che ci avete portato è il corpo”, e così la possibilità di separare gli individui dal mondo, dagli altri e perfino da sé stessi.

Questa storia credo possa ispirare una riflessione fondamentale: non solo molti modi di farci belli e belle sono prodotti culturali niente affatto connaturati all’umano, ma lo stesso concetto di corpo è un’acquisizione culturale di matrice occidentale e offre la possibilità stessa di pensare il corpo come qualcosa di separato, di parlarne, di farne l’oggetto di una proprietà (”il mio corpo”) e di modificarlo secondo i riti e i significati propri della nostra società.

“Combattere l’invecchiamento”. È giusto utilizzare metafore belliche quando si parla del passare del tempo?

Sicuramente è di uso comune ricorrere a termini appartenenti al glossario militare per mettere in scena la narrazione dei trattamenti che si rivolgono a rughe, borse, macchie e, in definitiva, a quei segni che più o meno esplicitamente rimandano alla finitudine umana. Fatico a esprimermi secondo le categorie di giusto e sbagliato, ma trovo interessante riflettere sulle implicazioni delle parole che usiamo.

Se le parole plasmano la realtà e se, come scriveva Michela Murgia, “il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello in cui finiamo per abitarla”, com’è vivere in una società in cui combattiamo contro gli indizi visibili del tempo che scorre senza poterli mettere definitivamente a tacere? E che mondo è quello costruito attorno all’idea che ci sia costantemente una quota di corpo — nel quale non ci riconosciamo — inaccettabile e per questo da domare, ammansire, sconfiggere?

Quale dovrebbe essere l’approccio più equilibrato quando ci si rivolge al medico estetico o all’estetista per dei trattamenti?

Credo fermamente che l’approccio più equilibrato altro non sia che il più consapevole. Il fulcro di questa consapevolezza, secondo me, risiede nella riflessione sul concetto di autenticità che nella nostra società riduciamo spesso all’idea di “essere noi stessi” e di “farci belli e belle per piacerci”.

Tenuto conto della connotazione sociale del corpo di cui siamo fatti, primo e immediato strumento di relazione con le altre persone, e di una, a mio avviso, impossibilità di fondo di ignorare i canoni estetici via via in vigore, l’idea di rivolgersi a professionisti e professioniste di bellezza come nel Cinquecento ci si rivolgeva ad artisti rinomati per affrescare la volta di una chiesa o di un palazzo è quella che, forse con un pizzico di utopia, mi piace di più.

Parliamo dell’estetista: qual è il suo ruolo nell’aiutare le donne a prendersi cura di sé?

Ho sento definire la figura dell’estetista in molti modi diversi: dottoressa mancata, più che amica, quasi psicologa. L’idea a cui sono più affezionata quando penso al compito dell’estetista — categoria di cui ho fatto parte per alcuni anni — è quella secondo cui sia creatrice di umanità.

Nell’accezione in cui applico questa definizione, immagino la sua più come una professione artistica che artigiana e il suo sapere come una pratica maieutica tramite la quale restituisce alle persone la propria “verità estetica” e la porta alla luce sul corpo.

In che modo l’estetista può creare una sinergia con il dermatologo o il medico estetico?

A seguito delle interviste che ho raccolto per la mia ricerca, mi sono fatta l’idea che l’estetista, in virtù del suo sguardo privilegiato sul corpo-mondo delle persone che tratta, può individuare prima e più tridimensionalmente di altre professioniste, bisogni e, talvolta, urgenze che, nella relazione clinica, rischiano spesso di scomparire.

La cifra di questo legame professionale, spesso descrittomi come confidenziale, è quella che si potrebbe definire un’ “intimità competente”, che, senza ledere il patto di fiducia implicito nel legame con la propria cliente, si avvale dell’accesso al suo corpo anche per vigilarne lo stato di benessere psicofisico e suggerire cure specialistiche.

In conclusione, non solo fra la professione di estetista e chi opera nella medicina estetica non c’è conflitto di interessi, ma ci sono i presupposti – già messi in campo da tanti professionisti – per un efficiente lavoro di squadra.